Ovidio nella Divina Commedia:
metamorfosi dei corpi, metamorfosi dell’anima

Conferenza a cura di Bianca Venturini

Loader Loading...
EAD Logo Taking too long?

Reload Reload document
| Open Open in new tab

Download [237.55 KB]



Introduzione alla conferenza di Bianca Venturini

Le opere del grande poeta latino Ovidio,  il famoso “cantore dei teneri amori”  erano conosciute e molto ammirate dai letterati medievali, sia laici che religiosi. Era difficile non trovare un manoscritto dell’Ars Amatoria in una biblioteca monastica, anche se ovviamente collocata in un segreto armadio, ben chiuso a chiave.

Dante non era da meno, anzi la sua conoscenza delle opere ovidiane era tanta e tale da esserne non solo influenzato, ma anche convinto del loro grande contenuto morale ed educativo.

Dante cita Ovidio nella Vita Nova come poeta d’amore; e nella Commedia vi sono numerosi echi dei testi amorosi ovidiani.

Ma cita più volte Ovidio nel Convivio e nella Volgare Eloquenza soprattutto come il  poeta delle Metamorfosi, il libro delle trasformazioni.

Nella Commedia innumerevoli sono i ricordi di miti contenuti nelle Metamorfosi (la regina Semiramide, Giasone, Medea, l’indovina Manto, il coppiere Ganimede, Mirra, il gigante Anteo, i mostri Cerbero, Minotauro solo per citarne alcuni).

Nelle invocazioni alle Muse, ad Apollo all’inizio delle cantiche del Purgatorio e del Paradiso, nella descrizione del Paradiso Terrestre come luogo dell’antica età dell’oro, vi sono richiami espliciti alle descrizioni ovidiane contenute nelle Metamorfosi.

Dante riteneva le Metamorfosi un’opera contenente un grande insegnamento allegorico. Come attraverso i racconti dei miti pagani, gli antichi romani ricevevano esempi per la formazione del cittadino e della sua virtus, così per Dante i miti contenuti nel capolavoro di Ovidio, il senso profondo delle trasformazioni degli umani, degli animali e dei vegetali, hanno un senso allegorico e morale. Vanno interpretati e compresi perché tesi all’elevazione dell’uomo. Così come la stessa  Commedia va interpretata nei suoi contenuti allegorici, morali ed anagogici.

Ma Dante va più in là. Nella Commedia dopo aver incontrato il poeta nel Limbo (Inf IV 90) e dopo aver citato innumerevoli miti ovidiani, proclama la propria  superiorità  su Ovidio, almeno per quanto riguarda la capacità poetica ed allegorica nelle  trasformazioni: “Taccia di Cadmo ed Aretusa Ovidio” (Inf XXV 97).

Le trasformazioni dei corpi sono funzionali per la trasformazione dell’anima: una visione dantesca che utilizza il mito pagano verso una elevazione religiosa e cristiana.

Italo Comelli



Annuncio della conferenza di Bianca Venturini
del 6 maggio 2024, pubblicata a pagina 12
della Gazzetta di Parma del 5 maggio



Lunedì 6 maggio la professoressa Bianca Venturini, docente di letteratura italiana, ha incontrato i soci della Dante sviluppando il tema “Ovidio nella Divina Commedia. Metamorfosi dei corpi, metamorfosi dell’anima.”

Ovidio, nato a Sulmona nel 43 a.C. da famiglia di rango equestre, si trasferisce a Roma dove studia Grammatica e Retorica rinunciando alla carriera politica. Si inserisce nel circolo culturale romano di Messalla Corvino ottenendo subito successo con una raccolta di elegie; nell’8 d.C., inattesa, arriva la condanna all’esilio a Tomi (oggi Romania) sul mar Nero dove rimane fino alla morte. Lì termina la stesura delle Metamorfosi (15 libri, 250 miti e leggende) un poema che va dall’origine del mondo, dal caos primigenio fino all’apoteosi di Cesare e di Ottaviano Augusto.

L’opera di Ovidio ebbe grande fama nel Medio Evo con interpretazioni o riletture moralizzatrici. Dante lo cita nella Vita Nova e nel De Vulgari Eloquientia. Il fiorentino trae ispirazione dal suo repertorio mitografico con immagini e similitudini che ritroviamo nei versi della Divina Commedia.

Dante e Virgilio lo incontrano tra le anime del Limbo, nel IV Canto dell’Inferno, tra gli spiriti magni:

Il buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi a tre sì come sire
quelli è Omero, poeta sovrano,
l’altro è Orazio satiro che vene,
Ovidio è’l terzo, e l’ultimo è Lucano.

Sono numerosi, nelle tre Cantiche, i riferimenti a personaggi ovidiani: Ulisse, Icaro e Fetonte, protagonisti di un folle volo o soggetti a metamorfosi in animali o elementi naturali.

Nel Canto XXV dell’Inferno – VII bolgia (i ladri) i due poeti sono testimoni di orribili metamorfosi: tre spiriti si avvicinano, uno di loro, Cianfa Donati, si trasforma in uno strano serpente a sei zampe.

Un serpentello nero e veloce si lancia su un secondo dannato e lo trafigge dando inizio ad una mostruosa mutazione: lo spirito acquista la forma di un serpente ed il serpente assume le sembianze umane.

“Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle”

“Taccia di Cadmo e d’Aretusa
Ovidio, che se quello in serpente e quella
in fonte converte poetando, io non lo invidio”

Dante sembra mettersi in competizione con Ovidio e Lucano evidenziando la propria maestrìa poetica e allegorica rispetto agli autori classici.

Fetonte, figlio di Apollo, citato nel VII Canto dell’Inferno, nel suo folle e tragico volo sul carro del Sole è simbolo dell’arroganza, della hybris, dell’impossibilità di un essere umano di superare il limiti. Il “volo” del pellegrino cristiano fatto con humilitas avrà successo aiutato da Beatrice che il poeta definisce

“quella pia che guidò le penne
de le mie ali a così alto volo”
(XXV Paradiso)

In Ovidio, la metamorfosi avviene per una sorta di capriccio degli dei che giocano con il destino degli esseri umani, non c’è un alto disegno provvidenziale come in Dante, nell’Inferno è frutto di una condanna senza appello, mentre nel Purgatorio e nel Paradiso non modifica il corpo ma è un processo interiore, la metamorfosi suprema è “transumanar” andare oltre la natura umana, una presa di distanza dal peccato e un avvicinamento alla redenzione.

Nel I canto del Paradiso Dante guarda Beatrice e, perdendosi nel suo aspetto, si paragona a Glauco, il pescatore greco che divenne dio marino dalle virtù profetiche, dopo aver mangiato un’erba magica

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.

L’epica narrazione di Ovidio si conclude con l’affermazione del proprio talento, del proprio io “per la mia fama vivrò

Ormai ho compiuto un’opera che né l’ira di Giove, né il fuoco
o il ferro e il tempo che tutto corrode, potranno distruggere.
Quando verrà, venga pure quel giorno, che solo sul corpo
ha potere, e ponga fine al corso della mia vita incerta:
con la parte migliore di me stesso volerò in eterno
ben oltre gli astri e il nome mio indelebile rimarrà.
E ovunque su terre assoggettate si estende il potere di Roma,
la gente mi leggerà e, se qualche verità è nel presentimento
dei poeti, di secolo in secolo per la mia fama vivrò.

Il lungo viaggio del pellegrino cristiano, percorso con humilitas e con l’aiuto della grazia, giunge alla salvezza “l’amor che move…” l’amore è il meccanismo del mondo e di tutta la vita.

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Marisa Dragonetti



Galleria d’immagini della conferenza del 6 maggio 2024 “Ovidio nella Divina Commedia: metamorfosi dei corpi, metamorfosi dell’anima”.
Le fotografie nella sala dell’ISREC sono state scattate dalla socia della Dante di Parma signora Nathalie Giaffreda che ringraziamo vivamente.

ultimo aggiornamento della pagina: 16 maggio 2024