Conferenza su “Le città invisibili” di Calvino

Lunedì 12 maggio la prof.ssa Giuseppina Mezzadroli ha tenuto una coltissima conferenza su “Le città invisibili” di Calvino. Il romanzo, molto profondo e complesso, fa parte del periodo combinatorio dello scrittore, che affida al lettore il compito di interagire con lui nella ricerca delle combinazioni nascoste nell’opera e nel linguaggio. Ciascuno ha quindi la possibilità di scegliere il percorso di lettura che preferisce. Calvino stesso ha affermato, in una conferenza del 1983 alla Columbia University a New York, che non c’è una sola fine delle Città invisibili perché “questo libro è fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po’ dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli”.

Il punto di partenza di ogni capitolo è il dialogo tra Marco Polo e l’imperatore dei Tartari Kublai Khan, che interroga l’esploratore sulle città del suo immenso impero. Marco Polo descrive città reali, immaginarie, frutto della sua fantasia, che colpiscono sempre più il suo interlocutore, ma i due hanno modi di apprendere, di pensare e di ricercare la realtà completamente diversi.

Il libro, metafora sulle città, è costituito da nove capitoli, ma c’è un’ulteriore divisione interna: ognuna delle 55 città è divisa in base a una categoria, 11 in totale, dalle “città e la memoria” alle “città nascoste”. Il capitolo V funge da baricentro: la crescita incontrollata produce distruzione e pesantezza. Alle città pesanti si contrappongono città leggere (come filigrana, aquiloni, nervature di foglie, linee della mano). Kublai Khan sogna che le città crescano in leggerezza, che facciano vedere “attraverso”, oltre le apparenze. E Marco Polo, d’accordo, alla fine ammette – Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.-

Le città presentate da Marco Polo sono il simbolo della complessità e del disordine della realtà, e le parole dell’esploratore appaiono, quindi, come il tentativo di dare un ordine a questo caos del reale. Calvino nella sua opera vuole mostrare, come da lui stesso affermato alla fine del libro, sia “l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme” sia i due modi per non soffrirne: “Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. La seconda via quindi è la sfida, è la resistenza al gorgo. Positivo e negativo sono sempre insieme; occorre riconoscere le parti vitali in mezzo alle brutture e cercare di salvaguardarle.

Per Calvino è lo sguardo dell’artista che deve andare oltre il caos del mondo, deve aguzzare la vista per trovare zone d’ordine.

Ma queste città sono anche sogni, come dice Marco Polo: “tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”. Sono città invisibili.

La realtà perde la sua concretezza e diventa fluida e puramente mentale, si realizza nella fantasia. Il ruolo e la sfida del lettore è riuscire a cogliere il “discorso segreto”, le “regole assurde” e le “prospettive ingannevoli” di queste storie. Deve cercare un suo ordine personale nella vasta materia dell’opera.

Mezzadroli si è soffermata sulla descrizione di alcune città:

Clarice, la città postmoderna

Clarice, città gloriosa, ha una storia travagliata. Piú volte decadde e rifiorí, sempre tenendo la prima Clarice come modello ineguagliabile d’ogni splendore, al cui confronto lo stato presente della città non manca di suscitare nuovi sospiri a ogni volgere di stelle. … Ogni nuova Clarice, compatta come un corpo vivente coi suoi odori e il suo respiro, sfoggia come un monile quel che resta delle antiche Clarici frammentarie e morte. Non si sa quando i capitelli corinzi siano stati in cima alle loro colonne: solo si ricorda d’uno d’essi che per molti anni in un pollaio sostenne la cesta dove le galline facevano le uova, e di lí passò al Museo dei Capitelli, in fila con gli altri esemplari della collezione. L’ordine di successione delle ere s’è perso; che ci sia stata una prima Clarice è credenza diffusa, ma non ci sono prove che lo dimostrino; i capitelli potrebbero essere stati prima nei pollai che nei templi, le urne di marmo essere state seminate prima a basilico che a ossa di defunti. Di sicuro si sa solo questo: un certo numero d’oggetti si sposta in un certo spazio, ora sommerso da una quantità d’oggetti nuovi, ora consumandosi senza ricambio; la regola è mescolarli ogni volta e riprovare a metterli insieme. Forse Clarice è sempre stata solo un tramestio di carabattole sbrecciate, male assortite, fuori uso.

Trude, la città aeroporto

Se toccando terra a Trude non avessi letto il nome della città scritto a grandi lettere, avrei creduto d’essere arrivato allo stesso aeroporto da cui ero partito.

Armilla, la città d’acqua

Se Armilla sia cosí perché incompiuta o perché demolita, se ci sia dietro un incantesimo o solo un capriccio, io lo ignoro. Fatto sta che non ha muri, né soffiti, né pavimenti: non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell’acqua.

Leonia, la città che rifà se stessa tutti i giorni e che ogni giorno butta via tutto per far posto alle cose nuove.
La città metafora dei rifiuti

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