Ovidio
il poeta dei teneri amori

Relatore: Italo Comelli

Nella conferenza presso la sede della Dante del 26 marzo, Italo Comelli ha ricostruito i momenti più significativi della vita e delle opere di Publio Ovidio Nasone, il poeta licenzioso e politicizzato, che duemila anni fa moriva a Tomi, sulle rive del Mar Nero, dove l’imperatore Augusto l’aveva confinato per motivi non ancora chiari, il misterioso error.

Nacque a Sulmona nel 43 a.C. in un contesto politico e sociale piuttosto complesso, che vide protagonisti Ottaviano e Antonio in contrasto, dopo l’uccisione di Giulio Cesare.

Ottaviano celebrò nel 29 a.C. il suo trionfo e in questo periodo Ovidio si trasferì a Roma dove percorse il cursus honorum, dopo aver completato un viaggio di formazione in Grecia, Asia Minore e in Egitto.

Sin da quando era andato a scuola nella sua città natale di Sulmona, Ovidio aveva sentito una forte inclinazione per la poesia. Egli stesso affermava ”Quod temptabam dicere versus erat”.

Amava la poesia “che non arricchisce” e ad essa si dedicò per tutta la vita.

A Roma non entrò nel circolo di Mecenate, frequentato da Virgilio e Orazio, ma nel circolo letterario di Messalla Corvino, dove conobbe Tibullo.

Qui lesse pubblicamente la sua prima raccolta, Amores, 25000 versi in distici, esametri e pentametri, elegie amorose dedicate a Corinna, una donna verosimilmente inventata. L’opera piacque molto. L’amore è un gioco, ed è visto con estremo distacco ed ironia, è servitium amoris nei confronti della donna, professione di totale dedizione nei confronti dell’amata, professione di schiavitù nei confronti dell’amore in tono scherzoso.

Questo motivo verrà ripreso poi dai trovatori medioevali. Infatti Ovidio fu uno dei primi poeti ad essere volgarizzato nel medioevo e nelle abbazie la sua opera fu ripetutamente copiata dagli amanuensi. Fu molto amato da Dante che lo cita spesso e imitato da Boccaccio.

A partire dagli Amores, Ovidio riportò un successo dopo l’altro, grazie a una serie di opere piene di originalità e immaginazione.

Le Eroides, 15 lettere di eroine ai loro uomini, come Medea a Giasone, Penelope a Ulisse, ma anche realmente esistite come Saffo, ebbero grande fortuna e, di conseguenza, scrisse altre lettere inviate da sei eroi alle loro donne, con relative risposte.

Fra queste quella di Ero e Leandro, due giovani amanti che vivono sulle rive opposte dell’Anatolia e della costa Greca. Racconta Comelli che ogni notte Leandro attraversava a nuoto il braccio di mare per raggiungere Ero, che lo attendeva con una fiaccola per indicargli la via. (Il mito spiega l’origine del faro) Ma una settimana di mare in tempesta li tenne lontano e Leandro allora decise di scriverle… ma avrebbe preferito nuotare piuttosto che scrivere…

“Se credi alla verità, venendo mi sembra di essere nuotatore, tornando mi sembra di essere un naufrago. E se mi credi, verso di te la via mi sembra in discesa, quando parto da te, è un monte di acqua insensibile. Malvolentieri – chi potrebbe crederlo? – ritorno in patria e malvolentieri adesso resto nella mia città. Ahimè, perché, uniti nell’animo, siamo divisi dal mare? E ci possiede un solo pensiero, ma non una sola terra? Mi prenda la tua Sesto o ti prenda la mia Abido; mi piace la tua terra quanto a te piace la mia.”

Dopo tante guerre, Augusto decise di ricostruire Roma anche sul piano della moralizzazione e dell’austerità. In questo clima la figlia stessa di Augusto, moglie di Tiberio, verrà confinata a Ventotene per i suoi atteggiamenti liberi. E Ovidio, il cantore della lussuria, il libertino, perse in parte la sua popolarità presso l’imperatore.

In questo periodo pubblicò l’Ars Amandi in tre libri, cui aggiunse i Rimedi dell’amore e un curioso Trattato sulla cosmesi. Ebbe un grande successo.

In seguito si dedicò alla scrittura de Le metamorfosi, 12000 versi in esametri che trattano 250 miti.

Fra questi, la storia tenerissima di Filemone e Bauci, in cui si può cogliere un atteggiamento più morale del poeta. È il racconto dell’Amore, quello con la A maiuscola, eletto come simbolo della fedeltà coniugale.

Scrisse poi i Fasti dove parla di Roma, dei grandi avvenimenti e delle tradizioni e dove si occupa anche di astrologia; dà varie interpretazioni sull’origine dei nomi dei mesi.

Cita anche il calendario di dieci mesi fatto da Romolo, di cui dice con ironia “che non sapeva fare i conti.”

Il calendario fu rielaborato poi da Numa Pompilio ed infine da Giulio Cesare.

Ma ecco, nell’8 a.C. il misterioso”error”.

Viene mandato in esilio da Augusto, che però non lo spoglia dei suoi beni, lo “relega”.

Nella vicenda era forse coinvolta la nipote dell’imperatore, che viene esiliata alle Tremiti.

Comelli dà lettura di una struggente lettera d’addio alla moglie, dove descrive la sua partenza all’alba, circondato dall’affetto dei suoi cari, che piangono con lui.

Dall’esilio Ovidio manderà una serie di epistulae, le Tristia, dove descrive la sua sofferenza di vivere in un ambiente ostile, abitato da gente rozza, di cui suo malgrado imparerà la lingua.

A nulla serviranno le sue preghiere ad Augusto di concedergli di tornare a Roma.

A Tomi morirà.

“E speriamo che le nostre anime muoiano col corpo e che nessuna mia parte sfugga all’avido rogo, perché se lo spirito, immune da morte, se ne vola via in alto negli aerei spazi e le parole del vecchio di Samo risultano vere, la mia ombra romana vagolerà fra le ombre dei Sàrmati e sarà sempre straniera fra selvaggi mani.”

Infine il suo epitaffio:

“Qui giaccio io, Ovidio Nasone poeta, cantore di delicati amori, che perii per il mio ingegno; non sia grave a te, che passi e hai amato, mormorare: Le ossa di Ovidio riposino infine dolcemente».

Questi sono i versi che il poeta Publio Ovidio Nasone volle scolpiti sulla sua tomba; tali erano le disposizioni che aveva lasciato a sua moglie Fabia. Anche allora Ovidio aspirava a essere ricordato come «il poeta dei dolci carmi d’amor» in allusione alle opere che aveva composto in gioventù e che gli avevano aperto le porte del successo.

A Costanza (la Tomi romana) c’è una grande statua dedicata dai Rumeni ad Ovidio, opera dello scultore Ferrari. Nel 1925 Sulmona, città d’origine, copierà quella di Costanza.

Alla conclusione della conferenza sono seguiti alcuni interventi, soprattutto relativi alla “colpa” di Ovidio, l’error che l’ha costretto all’esilio. Ma ancora non ci sono risposte sicure. Forse una congiura o forse una tresca con la nipotina di Augusto. Quest’ultima ipotesi è piaciuta molto.

Cristina Molinari Tosatti

 

ultimo aggiornamento della pagina: 18 aprile 2018