Due diverse solitudini:
Emily Dickinson e Antonia Pozzi

Relatore: Stefano Mazzacurati

Per i nostri Lunedì Stefano Mazzacurati ha presentato 21 ottobre 2019 al numerosissimo pubblico della Dante le figure di due poetesse. Ha accompagnato le sue parole e le sue riflessioni, la splendida recitazione di alcune poesie dell’attrice Paola Ferrari. L’incontro è stato molto interessante e intenso per i temi proposti, come la difficoltà di esprimersi liberamente, l’incomprensione degli altri, il bisogno di un rifugio, la differenza del cammino esistenziale delle due poetesse. Infatti: le diverse solitudini.

Riporto, qui sotto, una poesia e un breve profilo biografico di entrambe.

Antonia Pozzi

Solitudine

Ho le braccia dolenti e illanguidite
per un’insulsa brama di avvinghiare
qualchecosa di vivo, che io senta
più piccolo di me. Vorrei rapire
d’un balzo e poi portarmi via, correndo,
un mio fardello, quando si fa sera;
avventarmi nel buio per difenderlo,
come si lancia il mare sugli scogli;
lottar per lui, finché non mi rimanesse
un brivido di vita; poi, cadere
nella più fonda notte, sulla strada,
sotto un tumido cielo inargentato
di luna e di betulle; ripiegarmi
su quella vita che mi stringo al petto –
e addormentarla – e anch’io dormire, infine…
No: sono sola. Sola mi rannicchio
sopra il mio magro corpo. Non m’accorgo
che, invece di una fronte indolenzita,
io sto baciando come una demente
la pelle tesa delle mie ginocchia.

Figlia dell’importante avvocato milanese Antonio Pozzi e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, Antonia scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia al Liceo classico Manzoni di Milano, dove intreccia con il suo professore di Latino e Greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che verrà interrotta nel 1933 a causa delle forti ingerenze da parte dei suoi genitori.

Nel 1930 si iscrive alla Università Statale di Milano frequentando coetanei quali Vittorio Sereni, suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni e segue le lezioni del germanista Vincenzo Errante e del docente di estetica Antonio Banfi, col quale si laurea nel 1935.

Tiene un diario e scrive lettere che manifestano i suoi molteplici interessi culturali, coltiva la fotografia e ama le lunghe escursioni in bicicletta. Il suo luogo prediletto è la settecentesca villa di famiglia, a Pasturo, ai piedi delle Grigne, nella provincia di Lecco, dove studia e scrive a contatto con la natura solitaria e severa della montagna. Di questi luoghi si trovano descrizioni, sfondi ed echi espliciti nelle sue poesie; mai invece descrizioni degli eleganti ambienti milanesi, che pure conosceva bene.

A soli ventisei anni si tolse la vita in una sera di dicembre del 1938 e nel suo biglietto di addio ai genitori parlò di «disperazione mortale»; la famiglia negò la circostanza scandalosa del suicidio, attribuendo la morte a polmonite. Il testamento della Pozzi fu distrutto dal padre, che come aveva censurato la sua vita manipolò anche le sue poesie, scritte su quaderni e allora ancora tutte inedite.

È sepolta nel piccolo cimitero di Pasturo.

Emily Dickinson

Ha una sua solitudine lo spazio

Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte,
eppure tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare,
che è un’anima al cospetto di se stessa:
infinità finita.

Nacque nel 1830 ad Amherst, nel Massachusetts, da una famiglia borghese di forti tradizioni puritane. Durante gli anni delle scuole superiori decise, di sua spontanea volontà, di non professarsi pubblicamente cristiana, come prevedeva la consuetudine dell’epoca. Ma se la Dickinson aveva mostrato scetticismo nei confronti della religione, nutriva tuttavia un forte interesse per la sfera spirituale: questa contraddizione tra il dubbio e la ricerca appassionata della “verità” fu alla base della sua intensità poetica.

Emily iniziò a scrivere circa alla metà del XIX secolo, quando nel New England si sviluppò un’intensa attività letteraria e la poesia era un genere molto popolare, ma per le donne in quel periodo era difficile intraprendere qualsiasi professione.

Benjamin F. Newton, un avvocato che lavorava alle dipendenze del padre, fu un suo grande amico e confidente, leggeva le poesie composte da Emily e le dava consigli, rimase un grande amico anche quando la scrittrice si ritirò gradualmente dalla vita sociale.

A proposito del padre, la poetessa espresse un giorno il seguente giudizio: “Mio padre è troppo impegnato con le difese giudiziarie per accorgersi di cosa facciamo. Mi compra molti libri ma mi prega di non leggerli perché ha paura che scuotano la mente”.

Emily Dickinson visse la maggior parte della propria vita nella casa dove era nata, ebbe modo di fare solo rare visite ai parenti di Boston, di Cambridge e nel Connecticut. La giovane donna amava la natura ed era costantemente ossessionata dalla morte; a partire dal 1865 iniziò a vestirsi solo di bianco, in segno di purezza.

Nel 1855 compì un viaggio a Washington e a Philadelphia, dove conobbe il reverendo Charles Wadsworth, del quale si innamorò. Il suo rimase un sentimento platonico (il pastore era già sposato e aveva dei figli) e la Dickinson dedicò molti dei suoi componimenti a questo amore. Poco dopo il suo breve viaggio a Washington, la poetessa volle estraniarsi dal mondo e si rinchiuse volontariamente nella propria camera al piano superiore della casa paterna, anche a causa del sopravvenire di disturbi nervosi e di una fastidiosa malattia agli occhi, e non uscì di lì neanche il giorno della morte dei suoi genitori. Credeva che con la fantasia si riuscisse a ottenere tutto e interpretava la solitudine e il rapporto con sé stessa come veicoli per la felicità.

Emily Dickinson morì di nefrite nello stesso luogo, in cui era nata, il 15 maggio 1886.

La sorella Vinnie scoprì i versi nascosti e si interessò alla loro pubblicazione, che sarà sempre parziale fino all’edizione critica completa del 1955 curata da Thomas H. Johnson e comprendente 1775 poesie.

Una rivelazione editoriale che, grazie all’enorme potenza sensitiva, mentale e metafisica della poesia di Emily Dickinson, ha dato il via ad un vero e proprio fenomeno di culto.

Mi piacerebbe che gli amici amanti della poesia inviassero a questo sito i versi preferiti delle due poetesse.

L. C.


Sulle tracce di una stellina cieca

Antonia Pozzi nasce nel 1912 e muore nel 1938, a 26 anni, per suicidio. Figlia di Roberto Pozzi, autorevole e autoritario avvocato simpatizzante del regime e di Lina Cavagna Sangiuliani, figlia di proprietari terrieri.

L’ambiente era colto e raffinato. Lo spazio di A.P. è ristretto ma preciso, uno spazio in cui poteva vivere in qualche modo e respirare. Tre elementi lo compongono: la letteratura, la montagna e la fotografia.

Studentessa precoce si iscrive a Lettere. Al liceo aveva avuto un amore ricambiato per il professor Antonio Maria Cervi professore di greco. Amore infelice osteggiato dal padre di Antonia, che venne in qualche modo costretta a rinunciare, come disse padre, “non secondo il cuore ma secondo il bene”.

Un altro amore riguarda la montagna, le vacanze a Pasturo ai piedi della Grigna; e poi la fotografia; in molte fotografie si esprime il senso della lettura dell’acqua, dei monti.  All’università A.P. conosce Vittorio Sereni, Dino Formaggio, Remo Cantoni, Alberto Mondadori, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Maria Corti. Era allieva di Antonio Banfi, che fece poi pubblicare la sua tesi su Flaubert.

La vita di A.P. sembra terminare molto rapidamente, semplicemente, col suicidio, il 3 dicembre 1938, presso l’abbazia di Chiaravalle, dove lei si era recata in bicicletta e ingoiato un barattolo di pastiglie si adagiò sulla neve.

La trovarono ancora viva, ma il padre disse che era morta di polmonite. Successivamente il padre frugò nei cassetti dove Antonia custodiva le sue carte, perché aveva paura di cosa si sarebbe potuto dire e aveva cercato di bruciare, ricopiare, emendare in qualche modo quello che lui riteneva non da conoscere. Un comportamento analogo l’aveva già tenuto la sorella di Pascoli, Mariù, alla morte di Giovanni.

Sull’amore tra Antonia e il professor Cervi ci sono due lettere di lei. Una inizia con “Amore amore mio, tanti baci” (gennaio 1930); un’altra: ”L’altro giorno mentre ti baciavo l’anima mia era limpida come una tazza d’acqua…” Si scorge in queste parole un impeto, una sensualità che certamente compressione erotica, si sarebbe detto che repressione in senso freudiano.

Ne è esempio un testo chiamato Canto della mia nudità: “Oggi m’inarco nuda, nel nitore/ del bagno bianco e m’inarcherò nuda/ domani sopra un letto, se qualcuno/ mi prenderà. E un giorno nuda, sola,/ stesa supina sotto troppa terra,/ starò, quando la morte avrà chiamato”. Scrive mi prenderà come a voler essere salvata, liberata dalla vita attraverso qualcosa di simile.

Si ritrovano alcuni argomenti chiave che riguardano l’interiorità di Antonia.

Uno è la vertigine della sua angoscia, l’altra il dolore; ma anche nostalgia, tristezza, malinconia: sentimenti, anzi, arcipelaghi di emozioni e sentimenti molto vicini ed embricati. Quasi un’impalcatura, una sorta di esoscheletro costituito da questi elementi. Nasce il pensiero dominante del suicidio per una persona che non odiava ma amava la vita; un destino simile a quello di Leopardi e ancora di più a quello di Luigi Tenco che si uccide per amore della vita, come intesero scrivere Salvatore Quasimodo e Alfonso Gatto.

Gli eventi della vita avevano stravolto le speranze di A.P. e avevano provocato delle disillusioni, uno scompenso precipitato nella caduta definitiva, nel suicidio. Il tempo di A.P. è un presente che passa senza poterlo agguantare, un futuro assolutamente irraggiungibile, per cui c’è un continuo precipitare nel passato, esserne divorata: l’elemento temporale del vissuto malinconico.

È pure presente la nostalgia del futuro, come la chiamava Tabucchi. Cioè si preconizza un tempo futuro in cui ci sarà comunque una mancanza. Una poesia dice:” nell’aria della stanza/ non te/ guardo/ ma già il ricordo del tuo viso/ come mi nascerà/ nel vuoto/ ed i tuoi occhi/ come si fermarono/ ora in lontani istanti/ sul mio volto/”.

Un’espressione simile la troviamo nella nota canzone di Luigi Tenco Lontano lontano quando l’autore immagina che un giorno ormai troppo lontano una sera il suo amore starà parlando con un altro e lo penserà. È la presenza di una bruciante nostalgia, intrisa a mistero. Prevale alla fine il pensiero dominante che è quello della perdita del senso della vita. Nonostante questa situazione è presente in Antonia Pozzi anche il sorriso, che sembra una pioggia sottile in una poesia: ”e il tuo sorriso mi cadeva in volto,/dall’alto,/da fresche fontane/dietro urne di pietra/grondanti”. Insomma la fragilità di Antonia Pozzi è accompagnata anche da un saldo desiderio di vita, che si esprime tramite elementi sottili come questo sorriso.

Ma questa fragilità fu davvero fragilità? Arrendevolezza, infine poi resa alla vita? Oppure fu una chiusa passione in una cella palpitante tra pareti di cuore? Ci sono dei segnali di questa situazione impossibile da vivere, così imprigionata in questo nulla; lo esprime la presenza del bianco, colore luttuoso, un ambiente bianco orfico, metafisico (sono gli anni di De Chirico, Breton, ma anche, poco più tardi, quelli di Sartre e di Camus).

Comunque Antonia continua a venire divorata dal tempo. Sorge una lotta terribile, come avrebbe detto Paolo di Tarso, spes contra spem, una speranza contro ogni speranza. Infine prevale l’oggettività del suicidio. Tuttavia nel suicidio di A.P., così come abbiamo nel suicidio di Luigi Tenco e di altri simili suicidi, è la vita, non la morte, che paradossalmente prevale; la vita nella sua unica forma possibile di vitale negazione della mortalità vivente.

È la vita presente in noi il dono fatto a noi da chi si uccide. Nell’abdicare di una speranza altrui ci si fa presente la permanenza della nostra speranza come l’ombra di una speranza fuggitiva che osserva sua sorella la speranza che rimane.  Una situazione che può ricordare quella di Orfeo ed Euridice, in cui una componente vitale vuole trarre di nuovo alla vita qualcosa che tuttavia non si può fare a meno di lasciare scivolare nell’ombra della morte.

Questo tema è presente fin dall’adolescenza in Antonia Pozzi. C’è uno scritto di quando lei aveva 14 anni, nel suo diario: ”Ho paura, e non so di che: non di quello che mi viene incontro, no, perché in quello spero e confido. Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola, filtra giù attraverso le dita e non lascia sul palmo che un senso spiacevole di vuoto. Ma come della rena restano, nelle rughe della pelle, dei granellini sparsi, così anche del tempo che passa resta a noi la traccia”. Più avanti: ”Rimpiango il passato… adoro il presente,… non desidero l’avvenire”.

Per questo Antonia Pozzi si rivolge alla poesia; sente di averne bisogno, un bisogno vitale, tant’è che dice che come le vene vivono del sangue in fondo la sua vita vive di poesia. Nasce quindi un senso di trascendenza della vita: la vita oltre la vita per non essere risucchiata dalla morte nella vita stessa prima ancora di morire. La felicità non sta nell’essere amati, dice, la felicità sta nell’amare. In questa cupio dissolvi qualcuno ha letto il medesimo spirito di Ofelia che si lascia annegare attraverso il pensiero d’amore; un sentimento languido che i preraffaelliti hanno messo molto bene in evidenza nella trasparenza dell’immagine di Ofelia attraverso l’acqua circondata da ninfee in superficie.

Una testimonianza diretta della situazione spirituale di Antonia Pozzi è quella che potremmo chiamare la storia dell’Angelo. Nella notte tra il 9 e 10 settembre 1937, Antonia scrive: ”Ieri sera un angelo mi ha preso per mano. Non era ancora buio. Di là dai veli della pioggia e della sera gli alberi e le montagne erano ugualmente oscuri. L’angelo mi ha messo una mano sulla spalla, mi ha fatto salire di corsa le scale nere, fin qui nella mia stanza. Non avevo più fiato. Allora l’angelo mi ha messo una mano sul collo, sono caduta in ginocchio davanti alla finestra aperta, senza respirare, ho guardato il profilo immobile della montagna”. E poi ancora: ”L’angelo è tornato ieri sera. Abbiamo percorso la strada nuova, fino al cimitero. Dai monti minacciavano nuvole e temporali (…) le mie mamme montagne. Di colpo il campanile, che pare un albero anche lui, così verde, è scoppiato a suonare. E un bambino è venuto giù in volata su di una vecchia bicicletta, rischiando. Ho detto, angelo, torniamo”.

C’è una poesia vicinissima all’ora della morte, è del 3 dicembre 1938. Sono versi che testimoniano il senso dell’essere perduta, dell’essere-attraversata come da un torrente in cui sentirsi, ma anche lasciarsi, scivolare.

Tra le parole di questa poesia ci sono questi versi:”…così dolce è passare/ senza parole/ per le buie strade del mondo/ per le bianche strade dei nostri pensieri/ così dolce sentirsi/ una piccola ombra/in riva alla luce (…) pensando a un cielo notturno/ per cui due bianche stelle conducano/ una stellina cieca/ verso il grembo del mare/”.

La stellina cieca è stata da tempo assorbita dal grembo del mare. Qui finisce la mia visita al regno delle ombre dove, per quanto la si possa cercare, non si trova la traccia di Antonia Pozzi. Per ritrovarla bisogna, invece risalire, come dice Antonia, in riva alla luce. Abita ancora lì, la vitalità della poesia di questa piccola ombra.

Stefano Mazzacurati


Come un fucile carico, come un piccolo violino…

Emily Dickinson nasce nel 1830 e muore nel 1886 a 56 anni.

Il suo amico Thomas Higginson disse che quando era morta ne dimostrava trenta. La vita della Dickinson è apparentemente desertica. La sua ricca vita interiore si identifica con la parola.

In vita pubblica sette poesie. Solo molto recentemente è stata raccolta l’opera completa, nei Meridiani Mondadori, Emily Dickinson scelse la solitudine, non l’isolamento.

L’isolamento è una solitudine subita, la solitudine di Emily è scelta personale di vivere a distanza. A differenza della famiglia, e soprattutto del padre, di Antonia Pozzi, il padre, dominante ma comprensivo lasciò a Emily Dickinson la sua autonomia e la libertà di frequentare la sua biblioteca. “Sarei molto più sola senza la mia solitudine”.

Viene in mente una delle prime scene del film Via col vento, quando, dopo un lauto pranzo, gli uomini si appartano nel salone a fumare sigari e discutere di cose importanti mentre le donne si appartano a loro volta presso la cucina altre stanze più domestiche.

La famiglia di Emily era composta oltre che dal padre, da una madre piuttosto debole. Più che la presenza di un padre incombente contò la assenza, il vuoto della madre. Emily Dickinson scrive:” Non ho mai avuto una madre; non so cosa sia una madre; suppongo che una madre sia qualcuno a cui si va quando si è turbati”.

La poesia quindi diventa per la Dickinson una sorta di rifugio materno, una placenta. Facevano parte della famiglia la sorella Lavinia, il fratello Austin, che si sposò con Susan Gilbert. La cognata era una donna vivace, allegra, una specie di alter ego di Emily Dickinson, che volentieri faceva salire i loro bambini salire nella sua stanza, ma sempre uno alla volta per non fare troppo rumore.

La stanza è il cuore dello spazio di Emily Dickinson, una specie di spazio del corpo che si estende alle pareti della stanza stessa e anche al soprattutto agli scaffali della libreria. Negli ultimi 16 anni della sua vita Emily Dickinson visse apparentemente chiusa in quella stanza. Ne usciva di rado e verso sera. La stanza era composta dal letto, una lampada, un tavolino di noce e tre finestroni che davano sul giardino, sulla strada principale del paese e sulla casa di fronte, dove abitava il fratello.

L’esperienza della esclusione, come distanza nella vita e in un primo tempo anche nella letteratura, dapprima è percepita come negativa ma poi viene scelta e orgogliosamente rivendicata: non è più lei che viene esclusa dal mondo, ma lei che esclude il mondo. Lo fa tuttavia non in modo autistico, perché lei stessa detiene la chiave per uscire dalla sua stanza, in autonomia. In questo spazio vitale è necessario però un carburante. Questa alimentazione giunge dalla poesia.

Nella penombra della sua stanza Emily Dickinson può quindi coltivare una specie di rivoluzione interiore personale. Lei si rifiutò di aderire al cattolicesimo.

Ci sono alcune righe che dicono: ”Sai qual è la parola più bella? È la parola no”. E poi ancora: Di’ tutta la verità, ma dilla obliqua”, che esprime la sua diffidenza nei confronti del mondo. C’è una poesia in cui si esprime un concetto di follia legato a colui o colei che in qualche modo è diverso dalla maggior parte delle persone: Molta follia è saggezza divina-/ per chi è in grado di capire-/ molta saggezza – pura follia./Ma è la maggioranza/ in questo, in tutto, che prevale -/ conformati: sarai sano di mente -/obietta: sarai fatto da legare-/ Immediatamente pericoloso e presto/ incriminato.

A questo spazio rivoluzionario appartiene anche il territorio erotico. Emily Dickinson aveva rifiutato delle proposte di matrimonio.

Con certe persone vicine conservò una confidenza che però affidò sempre di più alle lettere, comunicazione che implicava un distacco del corpo. “L’anima sceglie il suo compagno/ poi – Chiude la porta” come per conservare l’aspetto erotico.

E ancora: “Io mi nascondo nel mio fiore/ perché quando appassisce nel tuo vaso/senza saperlo tu provi per me/ quasi una solitudine”. Il fiore è riferimento anche alla sessualità femminile, al sesso, ma subito l’elemento materiale viene spiritualizzato, sublimato in questa forma di dichiarazione per il rimanere all’interno di se stesso, non per appassirsi; per rimanere, al contrario, passionale, entusiasta della vita.

In un’altra poesia Emily scrive: ”Intorno alla mia vita mi mise la cintura – / sentii scattare la fibbia – / poi se ne andò, da imperatore – /ripiegando la mia intera esistenza. – /La mia vita era rimasta –  in un angolo – / come un fucile carico –  fino al giorno in cui/ il suo padrone passò –  riconobbe/ e mi portò via con sé”. Questo testo è fantasia erotica, evoca anche il ruolo di un’ideale figura maschile.

È un potenziale erotico conservato intatto, proprio perché mai consumato. Questo amore mai consumato diventa appunto il serbatoio di quell’energia che trova il suo correlativo oggettivo nella immagine del fucile carico.

La distanza, la separazione pare l’unica condizione e metodo per serbare l’amore e il suo potenziale esplosivo. La poesia di Emily Dickinson ha quindi modo di potersi piano piano levigare all’interno di quella stanza in cui l’erotismo, protetto dalla solitudine, riesce a sprigionare un’energia costante attraverso parole essenziali, mai barocche. Vengono alla mente certi affreschi del Trecento riportati in luce intatti su cui erano stati sovrapposti stucchi barocchi.

La Dickinson utilizza molto la lineetta, come a battere un tono si silenzio, una pausa del respiro; la maiuscola, quando vuole sottolineare una parola quasi in modo fisico. Emily Dickinson nel tenere a distanza l’esplosione del pericolo di vivere all’esterno, in qualche modo corrisponde al concetto freudiano di piacere come assenza del dolore. Poi nella sua poesia compare l’ombra della morte, vista come sogno, come giudice, come notte.

Una morte che accoglierà con serenità, colpita dal morbo di Bright, che è una forma di nefrite. Il suo medico parlò di vendetta dei nervi, in una semplicistica interpretazione psicosomatica. Ma non pare che il morbo di Bright abbia in qualche modo a che fare con la personalità.

Chi ha lavorato negli istituti psichiatrici, soprattutto quelli più cupi, come i vecchi manicomi, ha visto o ha sentito dire dagli infermieri più anziani che il delirio, la follia, in prossimità della morte, tendono a scomparire. Anzi scompaiono, proprio come se la persona avvertisse di non averne ormai più bisogno.

Come pure accade a Don Chisciotte, che in punto di morte rivela che lui non era mai stato pazzo, ma che si era difeso da mondo contemporaneo sognando il mondo cavalleresco.

Emily Dickinson non delirava. Ma certamente in prossimità della morte si permise di essere pur sempre sincera, ma più aperta, di aprire un po’ di più le porte della sua confidenza.

Prima di morire scrive una delle sue poesie più dichiaratamente tristi: “È questa la mia lettera al mondo – / che mai non scrisse a me – / (…)”  Due versi di una poesia più lunga in cui pare che Emily si tolga la maschera. Emily Dickinson era autentica, sì, ma non senza un mondano filo di trucco. Qui invece appare senza trucco, in quanto non ne ha più bisogno.

Scrive: ”Sarei forse più sola senza la mia solitudine”. La sua solitudine non era mai stata distante dal mondo, sia per quanto riguarda gli elementi naturali – il viaggio, il mare, gli alberi:”Non rimpiangiamo viaggiatori, o marinai – / belle le loro rotte – / ma pensiamo a tutto quello che ci diranno/ tornando qui. (…) e, più oltre: “lo spirito non sta fermo (…)”.

Inoltre Emily Dickinson era intrisa di spirito di amore per il prossimo: ”Se io potrò impedire/ a un cuore di spezzarsi/ non avrò vissuto invano./ Se allevierò il dolore di una vita/ o guarirò una pena/ o aiuterò un pettirosso caduto/ a rientrare nel nido/ non avrò vissuto invano/”.

La gentilezza, la tenerezza, fanno parte del suo discreto sorriso interiore; Il mistero dello sguardo. Incontri fatti solo sguardi, di nostalgia tenera, di un amore lieve ma intenso come un acquarello indimenticabile. Una solitudine viva.

Antonia Pozzi perde a un certo punto la speranza che permane nella nostalgia; e si lascia divorare dalla mancanza di senso, che conduce a ciò che in gergo psichiatrico si dice Hopelessness (mancanza di speranza) ed Helplessness (perdita dell’idea di potere essere aiutati); e quindi approda alla cupa riva del suicidio.

Al contrario in Emily Dickinson una forma di speranza resta sempre perché rimane sempre la nostalgia. Lo provano due versi:” Come se il mare si dovesse aprire/ mostrando un altro mare /”.

In questa ricerca dell’oltre Emily Dickinson trova il senso, per questo non si uccide, ma si rifugia. Altri versi dicono: “Ed io – rendendo un timido saluto – /che è servizio d’amore – / prendo allora il mio piccolo violino – / e vado più lontano –  verso il Nord”.

Ecco, vorremmo congedarci da Emily Dickinson con questa immagine.

E mentre ci accomiatiamo da lei, chiudendo piano piano la porta della sua stanza, dove troveremmo solo la sua memoria, la sentiamo allontanarsi verso il Nord, toccando gentilmente le corde del suo piccolo violino.

Stefano Mazzacurati

 

 

Il Sole, nella mattina del 20 maggio del 1886, scalpita sulla campagna della Contea di Hampshire. Lavinia Dickinson sale le scale della sua grande casa lentamente – il suo volto, pallido per il dolore, è una Luna che si staglia sul nero-notte del velo che le incornicia il viso. In quella Luna Levante, due pozzi chiari esondano lacrime calde: Emily è morta. Per un’invincibile nefrite. Quando arriva sulla soglia della sua stanza e appoggia la mano destra sulla maniglia, Lavinia non ha l’energia per girarla. Lì dentro non entrava mai nessuno. Come nel laboratorio di un alchimista impegnato in esperimenti troppo pericolosi, nessuno – nemmeno i servi per pulire, nemmeno i familiari – andava mai lì dentro. Lavinia adesso deve per forza. Con un gesto meccanico, la bocca lievemente aperta, schiude la porta: il letto in perfetto ordine; sopra il letto una tunica bianca e altre tre, identiche, piegate e appoggiate sul comò poco lontano; sullo scrittoio, accanto alla finestra, alcuni libri voluminosi, impolverati, e un calamaio di peltro senza più inchiostro dentro. Accanto al calamaio, una piccola chiave con un fiocco lilla.

Lavinia – cammina. I suoi passi sono lenti ma diretti, precisi. Infine arriva e poggia la mano sulla chiave, che sa essere quella del cassetto dello scrittoio. Lo apre. Dentro, in un raccoglitore grigio, cucito con ago e filo, su un un numero incalcolabile di piccoli fogli ripiegati, ci sono 1775 poesie di sua sorella. È una lettera in versi – caleidoscopio d’incandescenti frammenti – che per decenni aveva scritto al mondo. E il mondo non le rispose mai.

“Oh, Emily”: Lavinia guarda il raccoglitore ed è come se parlasse ancora con lei. Mentre piange, passa la mano sopra i fogli vergati da sua sorella quasi le carezzasse la guancia – e alza gli occhi – alla finestra. Sul davanzale, per nulla intimoriti dalla sua presenza, saltellano tre Pettirossi. Lavinia ne riconosce uno con la cravatta più scarlatta degli altri e si sporge per allungargli una briciola. Lui la prende col becco e vola via fulmineo, seguito dagli altri due. Nel fragore piccolo delle loro ali turbinanti, Lavinia sente distintamente un suono, come l’eco di un sospiro: è certa, per un attimo, di aver sentito Emily sussurrare “grazie” dall’abisso della morte – col suo labbro di granito.

Emily rideva spesso con lei e loro fratello Austin parlando della propria morte. Rideva di cose sulle quali la gente non avrebbe mai scherzato. Cose di fronte alle quali tutti mantenevano un rigidissimo contegno, per lei diventavano motivo di battute ironiche – alle quali seguiva la sua risata, spesso solitaria, nell’imbarazzo generale; una risata fragorosa, ma non sguaiata. Quando rideva, Emily lo faceva di cuore e ti fissava, inclinando leggermente indietro il capo e coprendosi la bocca con la mano sinistra. Quando si accorgeva che era l’unica a ridere nella stanza per ciò che aveva detto, tornava subito composta, ma gli occhi continuavano a brillarle ancora per qualche minuto.

Strano – pensa Lavinia carezzando il raccoglitore grigio – come lei ridesse di tutto. E come poi rimanesse seria, con l’atteggiamento di chi prega, nel guardare cose cui nessuno avrebbe dato la minima importanza. La affascinavano la gaia nullafacenza dell’Erba; la sfilata libera di una Nuvola sopra la Terra; il modo in cui la luce può cadere con un preciso angolo sopra i tetti di Amherst in un pomeriggio d’inverno: solenne come la musica di una cattedrale.

Lavinia, che Emily chiamava – Vinnie – non sempre capiva ciò che diceva sua sorella. Ma sapeva con certezza che era un essere speciale. Unico. L’unica donna al mondo – Lavinia ne era certa – che si preoccupava di quello che avrebbe fatto un Pettirosso se al mattino non l’avesse trovata viva; l’unica, ad essere entusiasta osservando per un giorno intero il volo delle Ghiandaie, o il profilo dei Prati dove cresceva qualche rara Emerocallide.

Era stata l’unica del suo anno, al Seminario Femminile di Mont Holyoke, a South Hadley, a non completare con lode il corso di studi, rifiutandosi di prendere i voti della rinascita evangelica. Non era mai accaduto prima. La direttrice rimase sconcertata. Emily non dette molte spiegazioni. Voleva solo tornare a casa sua, ad Amherst. E così fece. Lavinia non la ricorda più felice di quando la vide arrivare in calesse, in quel giugno del 1848, il giorno in cui abbandonava per sempre i doveri scolastici. Aveva diciott’anni. Ora vivrà la sua vita, lo faremo tutte e due – pensava allora Lavinia –, ci sposeremo e avremo bambini che giocheranno insieme. Ma Emily non vuole quel destino. Ne sceglie un altro.

La casa di loro padre Edward – brillante avvocato – uno degli uomini più notabili del Massachusetts, deputato al Congresso di Washington – repubblicano abolizionista – uomo colto e così in gamba da ripianare i debiti della sua famiglia e tenersi la grande magione su Main Strett – era il centro della vita culturale e politica di Amherst. Professori, giuristi, artisti, sacerdoti, politici e filosofi facevano di casa Dickinson, col loro andirivieni, un magnifico turbine di nuove idee e di gente eccezionale. I tre rampolli di Mr. Edward – Austin, Emily, Lavinia – sono presi e coccolati in quel turbine. Tra loro, Emily è la più spigliata e brillante, suona melodie di sua invenzione al pianoforte e conversa con chiunque su qualsiasi argomento.

Non è bella – dicono in molti a Mr. Edward – ma certo Emily non faticherà a trovare marito, per la sua intelligenza e la sua esuberanza; Emily è – di certo – la ragazza più colta e più divertente di Amherst. Ma il padre sa – vede – che c’è un’ombra invincibile negli occhi ridenti della sua seconda figlia. Non le piace uscire, non frequenta i balli o le altre case. Passa ore e ore in camera, come se pregasse sempre. Suo padre sa che Emily non prega: si rifiuta persino di inginocchiarsi quando la famiglia loda il Signore di sera. Emily legge. Scrive. Emily – Edward lo sente – è strana. Troppo strana. Suo padre non sa cosa ne sarà di lei. Emily è per lui un segreto che non riesce a decifrare, nemmeno con il codice del proprio amore.

Infatti: negli anni seguenti lei esce sempre meno dai confini della dimora paterna, se non per le lunghe e quotidiane passeggiate che amava fare nel giardino e nei prati circostanti. Sempre sola, o con il caro cane Carlo. Parla sempre meno, e sempre più come una Pizia. I suoi amici sono soprattutto epistolari: scrive e invia lettere continuamente. Ma quando qualcuno le fa visita – come accadde al Reverendo Maggiore Thomas Wentworth Higginson – l’ospite rimane sconcertato dal suo spirito e dal suo atteggiamento, e finisce per battere in ritirata.

Poi un giorno Emily decide di vestire solo di bianco. Come una vergine folle. Come una suora atea, il cui unico rito è sollevare una fronte libera verso le Montagne. Non smetterà il bianco nemmeno quando suo padre morirà improvvisamente a Boston nel 1874.

Né madre, né moglie, né cittadina; né donna, né uomo. Scelse, nel segreto del suo cuore, di essere nessuno. Perché – Lavinia non può saperlo – e suo padre non avrebbe potuto mai concepirlo – per lei la vita è l’assurdo. Essere qualcuno – qualsiasi identità – è così ridicolo. Gli uomini e le donne sono come rane, che gracidano stupidamente per tutta la durata di giugno in direzione di uno stagno, convinti che lo stagno si accorga di loro.

Molto meglio lo studio senza sosta del proprio giardino. Che diviene l’universo. Un universo senza confini, dentro la sua mente. Meraviglia dell’infinito che lei, nessuno, avrebbe descritto nei suoi versi, formule ignote e magiche rinchiuse nel cassetto del suo scrittoio fin dopo la sua morte, come il filtro proibito estratto dal sangue di un Drago in un’ampolla sacra.

Mentre lacrima stringendo tra le braccia il raccoglitore di poesie di sua sorella, Lavinia trasale realizzando che fuori, in giardino – il Prato, dove fino a pochi giorni prima crescevano Gerani Selvatici, ora era splendente di giallo per i mille Bottondoro che l’avevano ricoperto.

Le torna in mente la frase sconclusionata che Emily le aveva detto due anni prima, durante il funerale del loro giovanissimo nipote Gilbert – morto di febbre tifoide a otto anni, e che lei amava così profondamente: “Oggi i prati sono pieni di Mughetti. Quando morì papà, nove anni fa, venne il Biancospino. A me toccheranno i Bottondoro. Abbiamo un patto, io e l’Erba, e tra ragazze strane ci si intende”. Poi scoppiò in una risata fragorosa, reclinando leggermente indietro il capo, coprendosi la bocca con la mano sinistra. Poiché tutti tacevano, sfilando dietro la bara del bambino, Emily si ammutolì e tornò composta, ma gli occhi continuarono a brillarle.

ultimo aggiornamento della pagina: 3 dicembre 2019

 

 

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Emily Dickinson e Antonia Pozzi

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