Dante e la malinconia

Relatore: Stefano Mazzacurati
20 aprile 2015

Stefano Mazzacurati, Psichiatra e Psicoterapeuta, Membro dell’International Pen Club, Associazione Internazionale degli scrittori, inizia la sua dissertazione precisando di muoversi fra psichiatra e letteratura.

Così è stato per numerose volte, chiamato dalla “Dante” e da altre istituzioni come interlocutore preciso ed appassionato. Un’efficacia affabulatoria che gli deriva dal considerare Dante un contemporaneo.

Dante è qui” ripete più volte contestualizzando le vicende dantesche e introducendo la malinconia la cui origine storica riconduce alla Grecia classica della fine del V secolo; è grazie ad Omero infatti, ai celebri versi del Canto VI dell’Iliade e all’inesplicabile cruccio di Bellerofonte che compaiono il taedium vitae, la letargia, lo spleen, il male di vivere. Nell’eco dei suoi lamenti sorge in poesia la prima alba del sole nero. “Ma quando anch’egli venne in odio agli Dei, solo allora vagava per la pianura Alea rodendosi l’animo evitando i passi degli uomini”.

In “Problemata”, un testo di scuola aristotelica, dedicato alla malinconia degli uomini d’eccezione (andres perittoi), Bellerofonte diventa un esempio di vita eroica inseguendo le solitudini.

È la malinconia, bile nera, per la quale l’umore naturalmente freddo, avrebbe potuto ulteriormente raffreddarsi o improvvisamente riscaldarsi.

E sarà la poesia, più di qualsiasi altra arte a solcare la malinconia soprattutto nelle epoche di eccellenza malinconica. Struggente senso della sconfitta e della distanza, malinconia come depressione. La depressione come assenza del riflesso della gioia, un rallentamento di tutto l’essere, lutto per l’oggetto perduto.

In questa prospettiva, un approccio storico della malinconia può far scoprire un continente inesplorato dove forme della rappresentazione e del vissuto mostrano una inaspettata e sorprendente continuità; dove, entro l’orizzonte della sofferenza e dell’eccesso, storie di vita diverse fanno emergere un unico fondamento: una devastante lacerazione fra coscienza e mondo che può manifestarsi come pensiero, poesia, malattia.

E la malinconia finisce per lambire lo spazio dell’accidia, il più vituperato dei vizi capitali.

Nell’opera di Dante, secondo il relatore, non mancano i testi che descrivono questi stati di sofferenza provocati dalle delusioni, dai lutti e dalle perdite: testi dimostrativi caratterizzati da un linguaggio ricco di lirismo e di forza speculativa.

Per restituire la permanenza e la pluralità di forme della malinconia in Dante viene effettuata un’analisi strettamente linguistica che considera, nelle tre Cantiche, come termini quali “tristizia”, “trista”, “tristi”, “mesta”, “noia” ricorrano in modo diversificato.

Soprattutto significativa è, al riguardo, l’Epistola XII che contiene un breve frammento della vita di Dante negli anni dell’esilio. Il 19 maggio 1315 il Comune di Firenze offrì a tutti i fuorusciti la possibilità di rientrare in città pagando una multa (oblatio) e riconoscendo, in una pubblica cerimonia, la propria colpa. Dante rifiutò con sdegno; da innocente qual era, non intendeva umiliarsi per colpe non commesse; sarebbe ritornato a Firenze solo se nulla fosse stato tolto alla sua fama e al suo onore. La lettera, indirizzata a un amico di cui s’ignora il nome – Dante lo chiama Padre mio, forse era un religioso – esprime tutto l’orgoglio e la pena di un uomo integerrimo, che ha fatto molto per la sua città; di uno studioso di valore che non intende essere trattato come un comune malfattore; di un innocente infine a cui si chiede di risarcire monetariamente coloro che lo hanno offeso. Nello sfogo finale colpisce il tono, dato dalla distanza che ormai lo separa dalla sua città e insieme dalla nostalgia e dalla speranza.

La stessa malinconia diffusa nel Purgatorio, nel canto XVI, nell’incontro con Cacciaguida

Con queste genti, e con altre con esse,
vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse.
Con queste genti vid’ io glorïoso
e giusto il popol suo, tanto che ‘l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,
né per divisïon fatto vermiglio».

Un’attenzione particolare è riservata al sonetto “Un dì venne a me Malinconia” in cui la malinconia, quella specifica greca malinconia patologica, si impadronisce di Dante innamorato e gli procura la visione, come già nel sonetto aveva fatto, non ancora di Beatrice morta, ma di Amore che comunque annunciava la morte di nostra donna.

Un dì si venne a me Malinconia
e disse: “Io voglio un poco stare teco”;
e parve a me ch’ella menasse seco
Dolore e Ira per sua compagnia.

E io le dissi: “Partiti, va via”;
ed ella mi rispose come un greco:
e ragionando a grande agio meco,
guardai e vidi Amore, che venia

vestito di novo d’un drappo nero,
e nel suo capo portava un cappello;
e certo lacrimava pur di vero.

Ed eo li dissi: “Che hai, cattivello?”.
Ed el rispose: “Eo ho guai e pensero,
ché nostra donna mor, dolce fratello”.

Maria Pia Bariggi

ultimo aggiornamento della pagina: 1o maggio 2015