Dante Alighieri:
dalla lingua alle lingue

Relatore Vittorio Cozzoli

La conferenza è stata attuata in ricordo dell’attore poeta dialettale Lanfranchi, nell’ambito dell ciclo di conferenze “Dialetti: cultura viva”, ideata da Marzio Dall’Acqua.

Il titolo della relazione di lunedì 9 marzo 2015, “Dalla lingua alle lingue”, per essere inteso nel suo scopo, porta un sottotitolo in qualche modo esplicativo: “Dalla lingua originaria, sacra, parlata da Adamo nell’Eden, alle lingue della dispersione e della confusione fuori dell’Eden, le Volgari, e dalle Volgari al Volgare illustre, la lingua risacralizzata”.

Si tratta di cogliere, nel suo fondo, il progetto linguistico di Dante, che lo porta ad affrontare ben più che un trattato di retorica linguistica o di un modo di fondazione della lingua italiana, ma a riconsiderare, come mai fatto prima di lui, il significato stesso della lingua umana, della lingua della ’poesia’, sia essa in prosa o in versi.

Il De Vulgari Eloquentia (che porta un titolo non dato da Dante, ma assegnatogli in epoca cinquecentesca, contrassegnata dalla ‘questione della lingua’, cioè trattata in epoca non più dantesca, ma petrarchesca) viene troppo spesso considerato e studiato equivocandone l’intentio di fondo e riducendone il significato e la portata.

Occorre, dunque, in questa ricerca di precisazione, seguire più Dante che la Dantologia, cioè leggere il trattato ‘secondo Dante’. E questo, a partire da quanto dice di sé, auto testimoniando “la novitade de la mia condizione” (Cv.II,vi), che fa riferimento ad una personale condizione mistico-carismatica, i cui fenomeni sono gli ‘speciali sonni’ che danno in speciali sogni, che il Medioevo definiva ‘visio in somniis’, nonché in altre fenomenologie carismatiche (vedi le strane ‘assenze’), di cui sono intessute la sua vita e la sua opera, a partire dalla Vita Nuova. Dirà, quasi a conferma di ciò, nell’Ep. XIII: “Ma a noi cui è concesso conoscere l’ottimo che è in noi”, in modo che non si equivochi circa la realtà che è l’ottima in noi: non quella del corpo e neppure quella dell’anima, ma quella dello spirito, benché dell’anima e dello spirito si faccia una realtà sola (“fassi un’alma sola” Pg. XXV, 74). Ciò gli concede carismaticamente la certezza dell’identità dell’uomo come spirito incarnato, unione di corpo anima spirito.

Da qui il significato che assumono i suoi Incipit (dal verbo ‘in-capio’, sono preso dentro di me, dove si trova le res nova, la res nova, la realtà beatrice, lo spirito). Anche l’Incipit del DVE continua questa significazione, perciò si rivolge a “Tutti li uomini”, comprese le “muliercule”, i bambini, gli ignoranti, oltre che i letterati, i filosofi, i teologi. Ecco perché può affermare “movemi desiderio di dottrina dare la quale altri veramente dare non può”(Cv.I,ii).

Da qui, inoltre, il suo impegno a togliere equivoci circa la funzione e la finalità del Trattato: nega che il ‘volgare illustre’ sia proprio dei Toscani e dei Fiorentini specialmente; nega inoltre che tale volgare sia proprio della poesia, dato che neppure è dato ai più eccellenti poeti.
Il suo impegno è risalire alle origine stessa del parlare proprio degli uomini, offrendo una teorizzazione che distingua il parlare umano nella sua specificità rispetto il comunicare degli Angeli (puri spiriti) e degli animali (corpo animato dall’anima, ma senza spirito). Ciò che, però, impegna maggiormente Dante è la vicenda originaria del parlare di Adamo nell’Eden e la conseguenze che dovette patire – e con lui la sua lingua – nel durissimo in exitu dall’Eden, a causa della caduta nella prova. Che fu linguistica: non tanto era messo in prova il mangiare del frutto (malum/melo) quanto il valore stesso della realtà linguistica. È di questa che si serve il Serpente per tentare Adamo ed è con questa che Adamo (Eva è tentata per prima, ma ad Adamo spetta scegliere il sì o il no) risponde (causando il “trapassar del segno” Pd. XXVI, 117).

Per Dante questo fatto è assolutamente centrale per la storia della lingua umana e maggiormente per lui lo diviene nel prendere coscienza di quello che, provvidenzialmente gli è dato come missione “in pro del mondo che mal vive” (Pg. XXXII, 103): fare in modo che “la morta poesì resurga” Pg. I, 7). Ciò significa risacralizzare la desacralizzata, riunire la dispersa, ridonare chiarezza alla confusa, porla al servizio della giustizia denunciando ogni inganno ed ogni violenza.

Questo ri-portare la lingua là “onde invidia prima dipartilla”(Inf. I, 111) è il progetto linguistico di Dante, e come tale va inteso e studiato nelle sue conseguenze. Che risultano assai importanti anche (ma non solo) per la lingua della poesia, che chiede una cosa sola all’artista: giungere “a l’ultimo suo” (Pd. XXX, 33). In questo modo può guidare anche ogni uomo “a l’ultimo suo”, che per Dante è “Vdere Te è il fine” (Ep.XIII,33). Ma, essendo l’uomo segno della realtà tutta, la visibile e la invisibile, occorre uno strumento che consenta alla lingua di dire tutta la realtà, anche la invisibile. Due modi Dante utilizza: la fictio, con la quale dà ’figura’ alle realtà immateriali, quali sono le spirituali; il sistema polisemico (lettera e triplice allegoria). Solo così la ‘lingua’ di Dante diviene la nostra, la pienamente umana. Con questa lingua, piena, armonica, originaria, parlò Adamo con Dio/Creatore e con tutte le creature; con questa, riportata nell’Eden, dunque ri-novata, parla Dante, la cui polisemia non può dunque essere considerata un artificio retorico, ma il mezzo idoneo per la comunicazione secondo la natura umana.
Basterebbe questo per ritornare su ‘cosa’ ha fatto (o non fatto) la Linguistica moderna e contemporanea, e su ‘dove’ ha condotto gli uomini un linguaggio sempre meno idoneo a compiere, nella sua pienezza, la comunicazione. Non solo la Linguistica, ma anche la Poesia contemporanea ha patito questo deficit. Dante, inteso ‘secondo Dante’, può rimetterla in “cammin”, indicando la direzione giusta e, soprattutto ‘alta’, dell’uso della lingua e della lingua della poesia.

Non è un segno indifferente il fatto che i maggiori poeti del Novecento (penso, tra gli altri, a Pound, Eliot, Mandel’stam) abbiano dialogato, più che con altri studiosi della lingua, con Dante. E non certo per problemi di retorica o di ideologia.

Ri-trovando se stessi, gli uomini ri-troveranno la “nostra vera prima lingua” unitamente alla propria nobiltà (la originaria, divina, ‘non- bilis’): Questa, nobile, è la ‘illustre’, capace di illuminare le nostre intelligenze sulle realtà ultime, le sole necessarie. In ogni tempo, anche in questo tribolatissimo nostro. Così chiama a sé i suoi poeti, i poeti ‘novi’, perché, se la res essenziale è la ‘nova’, e la vita da ’nova’ sarà ‘novissima’, questa va cantata.

 

Marzio Dall’Acqua

ultimo aggiornamento della pagina: 1o aprile 2015