D’Annunzio
al di là del superuomo

Relatore: Guido Bellocchio

Dobbiamo ringraziare il prof. Bellocchio che con chiarezza e competenza ha avvinto la folta platea parlando il 9 aprile di D’Annunzio e del suo tempo.

Alla fine dell’Ottocento, infatti, in Europa la cultura sta andando verso nuove e avanzate direzioni. D’Annunzio porta questo fermento nella cultura italiana; fa entrare Decadentismo, Estetismo, Evangelismo slavo, Nietzsche anche se in modo superficiale e appariscente (per questo si capisce perché l’influenza di Pascoli sullo sviluppo della poesia italiana sia stata molto più incisiva).

Giovanissimo, pubblica le prime poesie di impronta carducciana, quindi si trasferisce a Roma dove dà prova delle sue capacità di scrittore come giornalista di cronaca mondana. Qui viene a contatto con ambienti aristocratici e borghesi e assiste alle trasformazioni vertiginose di Roma da poco diventata capitale. Pubblica due libri, Canto novo e Terra vergine in uno stile verista che privilegia il barbarico, violento e sensuale. Mostra un’innata disposizione ad usare la parola, a piegarla alle sue intenzioni narrative. È il primo scrittore moderno perché vive dei proventi della sua scrittura ed è innovativo anche per molti altri aspetti. Sa smuovere le masse perché coglie da subito l’importanza della pubblicità. Il romanzo del 1889, Il Piacere, ha successo per il clamore che riesce a creargli attorno con un grande scandalo, montato appositamente, e per l’attenzione che rivolge al pubblico borghese, suo potenziale lettore. Alla borghesia in crisi per il timore di perdere il suo status, offre la fuga nell’estetismo. L’esteta non ha senso morale perché giudica tutto secondo categorie di bello e brutto. Anche lo scrittore deve interpretare la parte dei suoi eroi, deve diventare un esteta, un personaggio inimitabile, ardimentoso, mitico. Questo naturalmente comporta molte spese e di conseguenza altrettanti debiti che lo costringeranno a numerose fughe anche all’estero. Presagisce anche il futuro successo che avrà il cinema e scrive la sceneggiatura di Cabiria.

Nel periodo della guerra smetterà i panni dell’esteta per indossare quelli del superuomo.

Nel 1895 esce Le vergini delle rocce, il romanzo in cui si affaccia la teoria del superuomo, che dominerà tutta la sua produzione successiva. Inizia una relazione con l’attrice Eleonora Duse, descritta successivamente nel romanzo Il Fuoco (1900) e avvia una fitta produzione teatrale di grande successo: Sogno d’un mattino di primavera, Sogno d’un tramonto d’autunno, La città morta, La Gioconda, Francesca da Rimini, La figlia di Jorio (1903).

Gabriele D’Annunzio, nella sua fase superomistica, è profondamente influenzato dal pensiero di Nietzsche, tuttavia, molto spesso lo banalizza e lo adatta alle proprie idee. Dà molto rilievo all’esaltazione dello “spirito dionisiaco” nietzschiano che si esprime nell’ebbrezza creativa e nella passione sensuale, al vitalismo pieno e libero dai limiti imposti dalla morale tradizionale, all’esaltazione dello spirito della lotta e dell’affermazione di sé. Idee che assumono una forte connotazione aristocratica, reazionaria e persino imperialistica.
Le opere superomistiche sono tutte una denuncia dei limiti della realtà borghese del nuovo stato unitario, del trionfo dei princìpi democratici ed egualitari, del parlamentarismo e dello spirito affaristico e speculativo che contamina il senso della bellezza e il gusto dell’azione eroica. Il vate arriva quindi a vagheggiare l’affermazione di una nuova aristocrazia che si elevi al di sopra della massa attraverso il culto del bello e la vita attiva ed eroica. Per D’Annunzio devono esistere alcune élites che hanno il diritto di affermare se stesse, che possono lottare per una nuova politica dello Stato italiano di dominio sul mondo, verso nuovi destini imperiali, come quelli dell’antica Roma. Queste idee lo spingeranno a indossare i panni di interventista nella Prima Guerra Mondiale e di leggendario eroe di audaci imprese aviatorie.

Sostanzialmente riconducibili a questa fase di superuomo- tribuno sono le Laudi, ma il terzo libro – Alcyone – ha un profilo diverso: non è caratterizzato da una dimensione tribunizia, è una celebrazione della natura, è un momento di tregua.

Alcyone rappresenta la fase panica: il poeta attraverso la magia della parola può illuderti che tu sei parte della natura, ti offre un momento di tregua dalle sofferenze, dai problemi. La parola non vale per il suo significato, ma per il suono, per la musicalità, deve essere evocativa e non descrittiva.

Questa raccolta apre la strada al cosiddetto periodo notturno della produzione dannunziana. Si tratta di meditazioni, confessioni, ricordi scritti in una prosa nuova e moderna, che esprimono in modo autentico e sincero l’interiorità dello scrittore, la sua malinconia e, a volte, il suo sgomento per un bilancio esistenziale fallimentare.

La pioggia nel pineto da Alcyone:

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo vólto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo, e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce del mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

Dal Notturno:

Aegri somnia.

Ho gli occhi bendati.

Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi.

Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v′è posata.

Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati su gli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta.

Sento con l′ultima falange del mignolo destro l′orlo di sotto e me ne servo come d′una guida per conservare la dirittura.

I gomiti sono fermi contro i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l′articolazione del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato.

Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalte.

La stanza è muta d′ogni luce. Scrivo nell′oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l′una e l′altra coscia come un′asse inchiodata.

Imparo un′arte nuova.

Quando la dura sentenza del medico mi rovesciò nel buio, m′assegnò nel buio lo stretto spazio che il mio corpo occuperà nel sepolcro, quando il vento dell′azione si freddò sul mio volto quasi cancellandolo e i fantasmi della battaglia furono d′un tratto esclusi dalla soglia nera, quando il silenzio fu fatto in me e intorno a me, quando ebbi abbandonata la mia carne e ritrovato il mio spirito, dalla prima ansia confusa risorse il bisogno di esprimere, di significare. E quasi sùbito mi misi a cercare un modo ingegnoso di eludere il rigore della cura e d′ingannare il medico severo senza trasgredire i suoi comandamenti.

M′era vietato il discorrere e in ispecie il discorrere scolpito; né m′era possibile vincere l′antica ripugnanza alla dettatura e il pudore segreto dell′arte che non vuole intermediarii o testimonii fra la materia e colui che la tratta. L′esperienza mi dissuadeva dal tentare a occhi chiusi la pagina. La difficoltà non è nella prima riga, ma nella seconda e nelle seguenti.

Allora mi venne nella memoria la maniera delle Sibille che scrivevano la sentenza breve su le foglie disperse al vento del fato.

Sorrisi d′un sorriso che nessuno vide nell′ombra quando udii il suono della carta che la Sirenetta tagliava in liste per me, stesa sul tappeto della stanza attigua, al lume d′una lampada bassa.

Lori Carpi

 

ultimo aggiornamento della pagina: 16 maggio 2018